Overtourism, privatizzazioni e altri incidenti

L’estate è ormai alle spalle e cominciamo a tirare qualche somma su un fenomeno che, nel post-Covid, ha fatto quel salto di qualità che l’ha portato dall’essere solo grottesco a diventare inquietante a tutti gli effetti. Per mesi abbiamo dovuto sorbirci interminabili disquisizioni sull’overtourism: se questo turismo faccia male all’ambiente, ma faccia del bene all’economia, se stravolga le comunità delle aree meno antropizzate o se, al contrario, consenta loro di esistere e altre consimili amenità.

Facciamo un paio di passi indietro.

Ma l’Italia potrebbe vivere di turismo…

Il termine overtourism – non il concetto, che risale agli Anni ‘80 del secolo scorso – nasce nel 2016 per indicare quelle situazioni in cui il turismo di massa supera la capacità di carico di un sito: tipicamente, ma non solo, le grandi città d’arte. E, contemporaneamente, continuiamo a sentire ripetere il mantra secondo cui è proprio il turismo a mantenere in vita, oltre ai suddetti centri – che, tranquilli, camperebbero lo stesso – persino l’intero Belpaese, che addirittura “potrebbe vivere di turismo”.

«Ma mi faccia il piacere» direbbe l’ineffabile Principe Antonio De Curtis.
Questa sciocchezza, oltre che dagli esponenti del giornalettismo nostrano, viene purtroppo ripresa anche da eminenti rappresentanti politici.

Al netto della variabilità annua, il turismo rappresenta tra il 5 e il 7% del nostro PIL. E se ve lo steste chiedendo, quello della statistica è un terreno abbastanza sdrucciolevole e quel famoso 18% ripreso quest’estate è stato smentito da tutti gli istituti di ricerca: aggregava i dati in modo incongruo. Tradotto: usando quel metodo di calcolo, il PIL italiano sarebbe schizzato a più del doppio di quello ufficialmente registrato dallo Stato.

E comunque, nemmeno i Paesi di pochi milioni di abitanti che vendono i propri bambini ai turisti — attività non propriamente auspicabile — riescono ad avvicinarsi al sogno (per chi scrive, all’incubo) di vivere di turismo. È noto infatti che il settore, pur impiegando molta manodopera, per lo più sottopagata, genera ricavi bassi.

Il turismo, in un Paese come l’Italia, è un comparto importantissimo, genera tanti posti di lavoro (molti purtroppo stagionali e sottopagati), ma siamo lontanissimi, in tutti i sensi, dalle performance economiche e occupazionali del manifatturiero: ne consegue che non dovremmo accettare qualsiasi scempio “in nome del turismo”, come avessimo una pistola puntata alla tempia.

L’overtourism in natura non è turismo. Facciamocene una ragione.

Aremogna (Roccaraso, AQ) - Foto Luca Margheriti, Wikimedia Commons, CC BY-SA 3.0

Secondo aspetto, che ci tocca più da vicino: gli assalti a siti di inestimabile valore naturalistico e paesaggistico vengono spesso inseriti dal giornalettismo italiano nella categoria dell’overtourism.
Ma possibile che a nessuno sia venuto in mente di chiedersi se e in quale misura l’overtourism sia davvero “turismo”?

Perché, tenetevi forte: la colonna infame che ha impestato Roccaraso o quella che risale il sentiero del Seceda, con il turismo hanno poco o niente a che fare.

Il turismo, ovunque nel mondo, si qualifica per uno o più pernottamenti.
Tutti gli enti statistici censiscono “arrivi” e “presenze” (cioè pernottamenti).

Quindi: se vivo a Perugia e vado a Roma, rientrando in serata, a vedere, che so, la canonizzazione di Carlo Acutis, sto facendo turismo religioso? Ma proprio no.
Manca l’elemento fondativo del turismo: il pernottamento.

Si dirà che, siccome ho mangiato un cornetto a Termini, ho contribuito all’indotto turistico.
Mah. Io direi che, con o senza turismo, un bar alla Stazione Termini ci sarebbe comunque. Un po’ più piccolo, magari. Anche davanti alla stazioncina di Alviano Scalo c’è un bar: serve pendolari e qualche residente. O no?

Torniamo ai pernottamenti.
È stato fatto notare che, mentre le torme di cavallette spingevano alcuni residenti esasperati (o furbastri) a installare il famigerato tornello sul sentiero del Seceda, gli alberghi della Val Gardena erano ben lontani dal “tutto esaurito”.
I sentieri dolomitici, anche in pieno agosto, reggono perfettamente il carico escursionistico dei residenti, di chi vuole passare una domenica in montagna e di chi si fa la classica villeggiatura estiva. In teoria: alberghi pieni a metà, sentieri semivuoti, come dovrebbero essere. Se gli alberghi sono mezzi vuoti e i sentieri straboccanti, non stiamo parlando di turismo.

Seceda nelle Odle - Foto di Chavdar Lungov da Pixabay

E non si può nemmeno parlare di escursionismo, nel senso tecnico che noi Guide diamo al termine: le orde che, al seguito dei vari tiktoker campani, hanno infestato Roccaraso non hanno né i valori, né l’abbigliamento, né la preparazione dell’escursionista. Gli escursionisti veri — e le Guide coi loro clienti — di fronte a un certo tipo di frequentazione della montagna, cambiano destinazione di corsa. Siamo in molti, da anni, a sostenere il danno economico di evitare zone impestate da quel tipo di visitatori per continuare ad offrire un’esperienza di wilderness ai nostri clienti.

Il cosiddetto overtourism “in natura” è un’attività ricreativa che segue il flusso mediatico del momento. Un numero enorme di persone, che non sono escursionisti, decide di recarsi in un luogo perché va di moda, perché “visto su TikTok”, invece di andare al cinema, al centro commerciale o restarsene sul divano a guardare una serie; vi si reca seguendo la processione di visitatori, o una traccia su Wikiloc.

Un escursionista, invece, dedica diversi giorni l’anno alla sua passione, spesso con una Guida di riferimento o iscrivendosi a grandi associazioni — quelle vere, che non fanno pagare l’escursione ma la tessera annuale e le spese sostenute dai soci.

Mi pare chiaro: né turisti, né escursionisti. Un tempo li chiamavamo “merenneri”.

E’ il 2025. Tiktokisti? Fate voi.

E oltre ai danni ambientali — devastanti — questa “mala frequentazione” della natura ha pessime ricadute anche sul nostro lavoro: limitazioni all’accesso e, sempre più spesso, vere e proprie privatizzazioni di siti fino a poco tempo fa liberi da vincoli.

La privatizzazione non è il diavolo. A volte.

Cascata delle Marmore a Terni - Foto Davide Dalese da Pixabay

Primi anni ’70.
Sono un bambino quando i miei, in una delle loro prime vacanze in Umbria dal Sudtirolo, vogliono vedere la Cascata delle Marmore.
Il sito, al netto delle cartacce e dei fazzolettini, è costellato di profilattici usati sparsi tra le sterpaglie, e a terra ci sono siringhe.
Sono cresciuto in una famiglia progressista, so perfettamente cosa sono, e so che non vanno toccati.
Porto i sandaletti aperti e passerò tutta la visita in spalla a mio padre.
Visita brevissima: il passaggio dalle nostre ridenti valli tirolesi a quello schifo ce lo siamo ricordato a vicenda in famiglia per anni.

Oggi, per visitare le Marmore, si paga un biglietto.
Ci sono 12 km di sentieri segnati e manutenuti, un’area accessibile, sculture, una mostra, un Centro di Educazione Ambientale con bookshop, negozi, bar, ristoranti, un museo, la casa delle farfalle, laboratori …
Oltre mezzo milione di visitatori l’anno, duecentomila visite guidate, centinaia di scolaresche, una sessantina di posti di lavoro a tempo indeterminato (tra cui diverse Guide) e 4 milioni di euro di entrate nette per il Comune di Terni.

Qui, se non si è accecati da pregiudizi ideologici, si parla di valorizzazione.

Poi ci sono le altre privatizzazioni: quelle fatte per foraggiare “gli amici di”, rovinando per sempre un sito naturalistico e andando in un prevedibilissimo passivo già dal primo anno, con le perdite scaricate sugli enti pubblici (cioè su noi contribuenti) e i pochi utili privatizzati.
Potrei fare un bell’elenco di queste brillanti iniziative politico-imprenditoriali, ma taccio: non ho soldi per gli avvocati.

Gli altri incidenti: dai tornelli ai crateri, l’Italia è un solo grande Paese

Siamo in Italia, terra di antichissima antropizzazione.
È quasi impossibile progettare un’escursione senza finire su un terreno privato o, comunque, su proprietà collettive come Università Agrarie, Comunanze o Associazioni di Uomini Originari che, dall’Alto Medioevo a oggi, amministrano boschi, pascoli e risorse. Le Guide professioniste sanno che, nel relazionarsi con chi ha la proprietà o l’uso ancestrale di un territorio, bisogna usare una straordinaria sensibilità. In genere, basta chiedere, basta portare rispetto; nella maggior parte dei casi, nessuno ti nega nulla. Al tempo stesso, a nessuno piace vedere vandalizzato un luogo che gli appartiene, o anche, semplicemente, che sente “suo”.

Ora, la reazione all’invasione di gitanti ha sempre due facce:

  • da un lato, «Cavolo, tutta questa gente mi combina un disastro, spaventa le vacche, calpesta i prati e li riempie di immondizia». Verissimo;
  • dall’altro, «Se passano diecimila persone e chiedo cinque euro a testa, ho tirato su cinquantamila euro da un bene che non produceva nulla. Investo qualcosa nell’extracomunitario di turno che pulisca il prato e il resto è tutto guadagno. Inoltre, scoraggio gli accessi: faccio anche del bene all’ambiente».

Vero… fino a un certo punto.

Crateri Silvestri dell'Etna - Foto Valentina Gasparre, Wikimedia Commons, CC-BY-SA-4.0

Perché se metto un biglietto a una famosa cascatella, ma nel raggio di cento chilometri ce ne sono venti simili, l’orda barbarica si sposterà semplicemente su quelle gratuite.
Avrò speso soldi per recinzioni, cooperative di gestione, baracchini per i biglietti e pubblicità — e mi ritroverò il sito vuoto. Ben mi sta, direi.

Se invece l’attrazione mediatica è fortissima (fare la foto uguale a quella della presentazione dell’iPhone 15, per dire), allora i cinque euro li pagano, bofonchiando, ma li pagano. Le visite non caleranno, lo capirebbe anche un bambino, non si venga a dire che così “si preserva l’ambiente”.

Più di recente, a conferma che l’Italia è un grande Paese — drammaticamente uguale da Pantelleria alla Vetta d’Italia — in piena stagione e senza alcun preavviso sono stati “bigliettizzati” i Crateri Silvestri dell’Etna, meta storica di visita.
È presto per dire come andrà a finire questa ennesima privatizzazione, già osteggiata dall’ente locale e da una nutrita schiera di associazioni (tra cui il nostro sindacato di categoria), pronte, se i soci siciliani lo riterranno necessario, alla battaglia legale.

Quel che è certo è che i vincoli paesaggistici dell’area non consentono nemmeno di montare un chiosco per le bibite: difficile quindi parlare di valorizzazione, molto più facilmente si tratta di monetizzazione allo stato puro.

Tre paroline proibite

Al di là del caso specifico, se davvero si volesse ridurre il carico dei siti sovraesposti, e qualcuno lo sta facendo, basterebbero tre paroline che non piacciono a nessuno: prenotazioni, numero chiuso, sorveglianza.
Parole invise alla maggior parte delle amministrazioni, sempre convinte che “di turismo potremmo campare tutti” e che “più è meglio” e ai loro elettori, persuasi che la libertà suprema, ma chiamiamola libbertà, sia scorrazzare dove e come gli pare.

✍️Marco Fazion